Cassazione: ammesso il ricorso ad agenzie investigative sul posto di lavoro per scoprire lavoratore infedele

Sentenza n. 13789 del 23/06/2011.
Cassazione: ammesso il ricorso ad agenzie investigative sul posto di lavoro per scoprire lavoratore infedele
Luogo di lavoro – lavoratore infedele – indagini tramite investigatore privato - ammissibilità
Domenica 26 Giugno 2011

Con la recentissima sentenza n. 13789 del 23/06/2011 la Corte di Cassazione ha espresso  un principio, peraltro  già consolidato nella giurisprudenza della stessa Corte, in relazione ai limiti che l'art. 2 St. Lav. pone all'utilizzo da parte del datore di lavoro di guardie giurate all'interno dell'azienda.
In base a tale disposizione, infatti, il datore di lavoro “può impiegare le guardie particolari giurate, di cui agli articoli 133 e seguenti del testo unico approvato con regio decreto 18 giugno 1931, numero 773 , soltanto per scopi di tutela del patrimonio aziendale”.
Orbene, la Corte ha precisato che l'art. 2, nel limitare la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non esclude che il datore possa far ricorso ad agenzie investigative private sia quando debba accertare la portata di reati già perpetrati,  sia quando abbia solo il sospetto che in azienda siano in corso di esecuzione dei comportamenti integranti illecito penale; l'importante è che l'agenzia investigativa non svolga un controllo sull'attività lavorativa vera e propria o sui lavoratori genericamente considerati, ma focalizzi la propria indagine sulle prestazioni di quel dipendente che si sospetta stia ponendo in essere comportamenti che violano obblighi extracontrattuali penalmente rilevanti.


Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 2, sostenendo che il giudice di appello ha erroneamente ritenuto efficace il licenziamento, pur se la relativa lettera del datore di lavoro non esponeva le ragioni del recesso.
Il motivo è privo di pregio e va disatteso, sia perchè il ricorso non riporta il contenuto della comunicazione sia perchè la censura si traduce in un diverso apprezzamento rispetto alla valutazione del giudice di appello, che ha ritenuto che la comunicazione del licenziamento contenesse una analitica e completa rappresentazione dei fatti determinanti il recesso.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione circa un fatto decisivo del giudizio, con riguardo all'ammissibilità dell'utilizzo di una agenzia investigativa da parte del datore di lavoro per verificare e, successivamente, per provare in giudizio l'inosservanza delle procedure di cassa e la mancata registrazione fiscale delle relative operazioni.
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata ha fatto richiamo al costante orientamento di questa Corte, che si condivide, secondo cui le disposizioni dell'art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative - purchè non sconfinino nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata dall'art. 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori-, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Cass. n. 3590 del 14 febbraio 2011; Cass. n. 18821 del 9 luglio 2008; Cass. n. 9167 del 7 giugno 2003 ed altre conformi). Orbene il giudice di appello, proprio in relazione a tale orientamento, ha precisato che nella fattispecie in esame il controllo dell'agenzia si era mantenuto nei limiti anzidetti, non investendo la normale attività lavorativa, ma le prestazioni del dipendente integranti violazioni di obblighi extracontrattuali penalmente rilevanti.

Con i terzo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione circa un fatto decisivo del giudizio, con riguardo ai profilo della proporzionalità della sanzione espulsiva sia in relazione alla mancanza di precedenti disciplinari a suo carico sia in relazione alla disciplina collettiva, che non considera gli addebiti a lui mossi come una mancanza gravissima.
La censura è priva di pregio e va disattesa. Il giudice di appello ha ricostruito la condotta dello S. in tutti i suoi profili (soggettivo ed oggettivo) evidenziandone la gravità in relazione alla natura del rapporto di lavoro, alla ripetitività degli episodi - anche all'interno delle singole giornate lavorative - e alla delicatezza delle mansioni svolte dal lavoratore, addetto alla cassa, sicchè l'addebito mosso (omessa registrazione di merce) era tale da far venir meno la fiducia del datore di lavoro nell'operato del dipendente (in tal senso ex plurimis Cass. sentenza n. 14507 del 29 settembre 2003; Cass. sentenza n. 6609 del 28 aprile 2003).
In questo quadro la sanzione espulsiva è ampiamente giustificata ed è adeguata alla gravità della condotta, per cui la mancanza di precedenti disciplinari nel periodo pregresso di lavoro non assume decisiva rilevanza. In definitiva la censura del ricorrente si risolve in un diverso apprezzamento della condotta da lui tenuta rispetto alla valutazione del giudice di appello, sorretta da congrua e logica motivazione, non censurabile come tale in sede di legittimità. 4. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

 

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