Cassazione: licenziamento legittimo per ricaduta in malattia dovuta ad imprudenza

Cassazione Sezione Lavoro - Sentenza n. 1699 del 25 gennaio 2011.
Cassazione: licenziamento legittimo per ricaduta in malattia dovuta ad imprudenza
Lavoro - diritti ed obblighi delle parti - malattia del lavoratore insorta durante le ferie - obbligo di buona fede del lavoratore - scelta del luogo in cui trascorrere le ferie - rilevanza.
Sabato 12 Febbraio 2011

La S.C., con riferimento al caso di lavoratore sanzionato disciplinarmente per essersi recato durante distinti periodi di ferie in paese tropicale, contraendo ogni volta la malaria e così prolungando per malattia l'assenza dal lavoro, nell'affermare il principio secondo cui il lavoratore è libero di decidere come e dove utilizzare il periodo di ferie, ha ritenuto che tale libertà debba essere coniugata con l'obbligo di buona fede delle parti dei contratti a prestazioni corrispettive, che impone a ciascuna parte di preservare gli interessi dell'altra parte anche a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi giuridici, e che è violato non solo nel caso di dolo, ma anche di comportamento non improntato a diligente correttezza.

Testo Completo:

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Pescara, depositato in data 27.5.2002, A.D.M., premesso di aver lavorato alle dipendenze della Cassa di Risparmio di Pescara e Loreto Aprutino dal 16.1.1972, da ultimo in qualità di Capo Ufficio addetto all'Ufficio Crediti Speciali della sede Centrale, esponeva che con lettera del 27.12.2000 l'Istituto predetto gli aveva contestato di aver chiesto un periodo di ferie dal 22/11 al 7/12/2000 sostenendo di dover prestare cure alla madre mentre invece aveva utilizzato il periodo feriale per recarsi in (...omissis...); di essersi nuovamente recato nell'isola predetta nonostante avesse contratto le patologie da cui era affetto e senza considerare le conseguenze che la presenza in (...omissis...) provocavano al suo stato di salute; di aver svolto in diversi periodi le attività e gli spostamenti indicati in apposito elenco allegato; di essere affetto, dal 7/12/2000, da una patologia che non era tale da impedire lo svolgimento della sua attività lavorativa o che era stata causata dall'essersi nuovamente recato in (...omissis...), dove aveva contratto le sue malattie. Rilevava il ricorrente che, sebbene avesse presentato le proprie giustificazioni per iscritto, l'Istituto datoriale con nota in data 13.2.2001 gli aveva intimato il licenziamento per giusta causa.
Ritenendo la illegittimità di tale provvedimento chiedeva che il giudice adito volesse dichiararne la nullità o illegittimità, condannando la Caripe s.p.a. alla reintegra nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra.
Con sentenza in data 21.1 - 24.10.2001 il Tribunale adito rigettava la domanda.
Avverso tale sentenza proponeva appello l'originario ricorrente lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l'accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo.
La Corte di Appello di L'Aquila, con sentenza in data 14/12/2006 - 3/1/2007, rigettava il gravame.
Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione A.D. M. con sei motivi di impugnazione.
Resiste con controricorso l'Istituto intimato, che propone a sua volta ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi di gravame.
Il ricorrente principale resiste con controricorso al suddetto ricorso incidentale condizionato.
La Caripe s.p.a. ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..


Motivi della decisione

Preliminarmente va disposta la riunione ai sensi dell'art. 335 c.p.c. dei due ricorsi perchè proposti avverso la medesima sentenza.

Col primo motivo di ricorso il ricorrente principale lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 c.c. e segg. in relazione all'art. 2110 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).
In particolare rileva che la Corte territoriale aveva fondato la propria decisione su elementi diversi da quelli oggetto della specifica contestazione ed indicati nelle lettere a) - d) della nota di contestazione degli addebiti in data 27/12/2000.

Il motivo non è fondato.

Rileva il Collegio che la nota suddetta era così concepita: "Con la presente lettera, Le comunichiamo quanto segue: Da tempo Lei è affetto da patologie contratte in occasione dei Suoi viaggi in (...omissis...).
In data 26.10.2000 Lei ha chiesto al Suo diretto superiore sig. S., la concessione di un periodo di ferie dal 22.11 al 7.12.2000 sostenendo di dover prestare cure ed assistenza alla madre ammalata.
Il 7.12 u.s. l'Istituto riceveva un certificato medico con il quale Le si prescrive un periodo di riposo e cura di tre mesi. E' la quarta volta che Lei chiede ed ottiene di essere autorizzato a godere del periodo feriale e, prima che le ferie terminino, invia certificazione medica dal (...omissis...) con la quale si attesta la Sua inidoneità al lavoro per periodi di tempo assai lunghi. In tempi recenti, inoltre, siamo venuti a conoscenza che, nei periodi dal 26.6.1997 al 10.7.1997, dal 13.10.1997 al 24.11.1997 e dal 12.12.1998 al 12.2.1999 Lei è stato presente nei luoghi e nei periodi indicati nell'elenco allegato alla presente lettera (di cui costituisce parte integrante), oltre a svolgere le attività e gli spostamenti sempre indicati nell'elenco allegato. Sempre in tempi recenti, infine, abbiamo saputo con certezza che Lei ha interessi specifici in un'attività economica da Lei svolta in (...omissis...).
In base ai fatti esposti, Le contestiamo quanto segue:

a) di aver chiesto un periodo di ferie dal 22/11 al 7/12/2000 sostenendo di dover prestare cure idonee a Sua madre e di avere invece utilizzato il periodo feriale per recarsi in (...omissis...);
b) di essersi nuovamente recato presso l'isola africana nonostante ivi abbia contratto le patologie da cui è affetto e senza considerare le conseguenze che la presenza in (...omissis...) provoca al Suo stato di salute;
c) di aver svolto nei periodo 26/6/1997 - 10/7/1997, 13/10/1997 - 24/11/1997, 12/12/1998 - 12/2/1999 (nei quali Lei era ufficialmente in malattia) le attività, gli spostamenti e le presenze che sono meglio specificate nell'elenco allegato alla presente lettera (di cui costituisce parte integrante);
d) di essere affetto, con decorrenza dal 7/12/2000, da una patologia che non è tale da impedire lo svolgimento della Sua attività lavorativa o, in alternativa a tale fatto che è stata causata dall'essersi nuovamente recato in (...omissis...), dove ha contratto le Sue malattie".

Posto ciò rileva innanzi tutto il Collegio che decisamente non condivisibile si appalesa, nella sua assolutezza, l'assunto di parte ricorrente (che si ricava implicitamente dal predetto motivo di ricorso) secondo cui l'oggetto della contestazione disciplinare dovrebbe essere desunto esclusivamente dal contenuto degli specifici capi di cui alle lettere a) - d) della nota di addebito; assunto sulla base del quale il ricorrente era pervenuto alla conclusione che erroneamente la Corte territoriale, violando il canone della letteralità, della intenzione del dichiarante e della interpretazione complessiva, aveva attribuito alla prima parte di tale lettera, che può definirsi espositiva, la definizione del contenuto della contestazione disciplinare, la quale invece era espressa nella seconda parte, laddove erano state contestate le specifiche infrazioni indicate nelle lettere a) - d) della nota predetta.
Il rilievo non è fondato ove si osservi che la lettera di contestazione si configura come un documento unitario, il cui contenuto, proprio in virtù dei predetti canoni "della letteralità, della intenzione del dichiarante e della interpretazione complessiva" richiamati dal ricorrente, va desunto dalla valutazione globale ed unitaria del documento, e non da una lettura parcellizzata dello stesso enucleando gli specifichi episodi dal più generale contesto in cui i fatti indicati nella nota di addebito erano maturati.
E pertanto correttamente la Corte territoriale ha evidenziato come la giusta causa del disposto licenziamento andava ravvisata nelle assenze dal lavoro per malattia alla stregua dei fatti espressamente indicati nella suddetta lettera di contestazione, in cui la società datoriale aveva, in sintesi, nella prima parte, siccome rilevato dalla predetta Corte, così stigmatizzato il comportamento del dipendente: "E' la quarta volta che Lei chiede ed ottiene di essere autorizzato a godere del periodo feriale e, prima che le ferie terminino, invia certificazione medica dal (...omissis...) con la quale si attesta la Sua inidoneità al lavoro per periodi di tempo assai lunghi".
Il suddetto motivo di ricorso si appalesa pertanto infondato, dovendosi comunque ulteriormente evidenziare che tale infondatezza emerge anche alla stregua della lettura (riduttiva) della contestazione in parola fornita dal ricorrente. Ed invero nell'impugnata sentenza la Corte territoriale, nel rilevare la legittimità dell'intimato recesso, ha ben posto in evidenza come la richiesta di fruizione ferie motivata dall'esigenza di prestare cure alla madre malata in realtà non corrispondesse al vero avendo il dipendente utilizzato tali ferie per recarsi in (...omissis...) (circostanza avente chiaramente attinenza alla contestazione di cui alla lettera a); e come scientemente lo stesso si fosse esposto ad un rischio che superava di gran lunga il livello di mera eventualità stante la prevedibilità del rischio di malattia derivante dalle precedenti ricadute morbose nelle precedenti occasioni in cui si era recato in (...omissis...) (circostanza avente chiaramente attinenza alle contestazioni di cui alle lettere b) e d).
Alla stregua delle argomentazioni sopra esposte appare evidente come la motivazione dell'impugnata sentenza sia del tutto coerente al contenuto dell'avvenuta contestazione, dovendosi sul punto rilevare altresì che, allorchè la contestazione verta su una pluralità di addebiti, il riscontro positivo nel contesto della motivazione della pronuncia giudiziale di alcuni soltanto di tali addebiti, si appalesa senz'altro atto, qualora i fatti specificamente riscontrati siano idonei a giustificare il provvedimento sanzionatorio, a fondare la statuizione di conferma del provvedimento adottato dalla parte datoriale, non essendo a tal fine necessario che tutti gli addebiti trovino conferma e riscontro in sede giudiziale.
Il suddetto motivo di ricorso non può pertanto trovare accoglimento.

Col secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2110 c.c. in relazione all'art. 2119 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Rileva in particolare il ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto sanzionabile con il licenziamento per giusta causa la malattia che fosse cagionata da un comportamento imprudente del lavoratore, atteso che l'art. 2110 c.c. tutela la malattia in sè, prescindendo dalla colpa del lavoratore medesimo.
Ritiene il Collegio di dover trattare questo motivo unitamente a quello di cui al successivo punto quattro, con il quale il ricorrente lamenta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5), nonchè violazione e falsa applicazione dell'art. 36 Cost. e art. 2109 c.c., in relazione agli artt. 1175, 1375 e 2119 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3).
Ed in particolare rileva il ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto la violazione da parte del dipendente dei doveri di buona fede e correttezza sotto il profilo che volontariamente si era esposto al rischio di contrarre malattia omettendo di contemperare le proprie esigenze e le proprie scelte di vita con le esigenze della controparte contrattuale; in tal modo venendo la Corte di merito a sindacare la libertà del lavoratore di disporre del periodo di ferie secondo le proprie necessità e le proprie scelte, ed assumendo la mancata comparazione con le non meglio individuate esigenze del datore di lavoro.

I suddetti motivi non sono fondati.

Osserva innanzi tutto il Collegio che nel contratto di lavoro, che si configura quale contratto a prestazioni corrispettive, la mancata prestazione dell'attività lavorativa determina un difetto funzionale della causa atto a giustificare il recesso dal rapporto nei confronti del soggetto inadempiente.
In caso di mancata prestazione lavorativa a causa di malattia da cui è affetto il lavoratore la norma codicistica dettata dall'art. 2110 c.c. appresta una particolare tutela al lavoratore rilevando che allo stesso è dovuta egualmente la retribuzione o l'indennità per il tempo determinato dalle leggi speciali, con la precisazione che il datore di lavoro ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'art. 2118 c.c. solo una volta trascorso il periodo stabilito dalla legge.
La norma prevista dal suddetto art. 2110 c.c. pertanto, in deroga ai principi generali, riversa entro certi limiti sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa (Cass. sez. lav., 24.4.2008 n. 10706; Cass. sez. lav., 1.7.2005 n. 14046; Cass. sez. lav., 19.12.2000 n. 15916).
Ne consegue che tale norma deve essere armonizzata con i principi di correttezza e buona fede posti dagli artt. 1175 e 1375 c.p.c. che devono presiedere all'esecuzione del contratto, i quali assumono rilevanza non solo sotto il profilo del comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione ma anche sotto il profilo delle modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti e obblighi (Cass. sez. lav., 13.5.2004 n. 9141; in tal senso v. anche Cass. sez. 3^, 16.10.2002 n. 14726, laddove questa Corte ha evidenziato che il principio di correttezza e buona fede "si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge", rilevando che il detto principio, "oltre a costituire uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni, forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all'altra, ma anche qualora il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza").
Alla stregua di tali principi il lavoratore deve comunque astenersi da comportamenti che possano ledere l'interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione della prestazione lavorativa dedotta in contratto.
La questione che la presente vicenda giudiziaria pone non è pertanto costituita dalla non sindacabilità della libertà del lavoratore di utilizzare il periodo di ferie nella maniera che ritiene più opportuna (principio assolutamente fuori discussione), bensì dalla diversa problematica, di natura più ampia che si pone a monte della precedente, dell'obbligo - di carattere generale derivante, per come detto, dai suddetti principi di correttezza e buona fede - posto in capo di ogni lavoratore subordinato di tenere comunque una condotta che non si riveli lesiva dell'interesse del datore di lavoro alla effettiva esecuzione della prestazione lavorativa.
Argomentando da tali rilievi deve ritenersi che la mancata prestazione lavorativa in conseguenza dello stato di malattia del dipendente in tanto trova tutela nelle disposizioni contrattuali e codicistiche in quanto non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore medesimo (il quale scientemente, per come ritenuto dalla Corte territoriale nella fattispecie in esame con accertamento di fatto adeguatamente motivato e pertanto non censurabile in sede di giudizio di legittimità, assume un rischio elettivo particolarmente elevato che supera il livello della "mera eventualità" per raggiungere quello della "altissima probabilità", tenendo quindi un comportamento certamente non improntato a quella "diligente correttezza" cui ha fatto riferimento questa Corte nella citata sentenza 14726/02).
Pertanto, se pure è vero che il lavoratore è pienamente libero nel decidere come e dove utilizzare il periodo delle ferie, è altrettanto vero che siffatta libertà deve essere coniugata, alla stregua dei suddetti principi di correttezza e buona fede posti dagli artt. 1175 e 1375 c.c. che impongono alle parti del rapporto sinallagmatico di tenere comunque un comportamento che non pregiudichi la realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi, con l'esigenza che le scelte dallo stesso operate in materia non siano lesive dell'interesse del datore di lavoro a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa dedotta in contratto.
E la Corte territoriale ha correttamente operato tale comparazione, laddove ha evidenziato che siffatto "doveroso contemperamento" non vi era stato affatto non avendo l'appellante provato di avere tenuto una condotta prudente ed oculata, "per limitare al minimo i suoi rischi, ed il pregiudizio per il datore"; ed ha evidenziato altresì la "pervicacia" della condotta posta in essere dallo stesso, avuto riguardo alla "prevedibilissima" insorgenza di attacchi acuti di malaria, nonchè la "consapevolezza da parte del dipendente della inaccettabilità della sua condotta per il datore di lavoro" tanto che ebbe a motivare, in una occasione, la richiesta di fruizione di ferie (che avrebbe trascorso in (...omissis...)) con le esigenze di cure della madre ammalata.
Nè può omettersi di evidenziare che la finalità specifica delle ferie di consentire al lavoratore di appagare le sue personali esigenze e di ritemprare le proprie energie non può essere soddisfatta in modo tale da compromettere, invece, il recupero delle normali energie psico - fisiche e pregiudicare l'aspettativa del datore di lavoro al corretto adempimento della prestazione lavorativa al termine del periodo feriale.

Alla stregua di quanto sopra i suddetti motivi di ricorso non possono trovare accoglimento.

Con il terzo motivo di ricorso si assume omessa ovvero insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).
In particolare osserva il ricorrente che il rilievo della Corte territoriale circa l'assunzione di un rischio elettivo particolarmente elevato in relazione alle decisione di trascorrere le ferie nel (...omissis...), dove la malaria assumeva carattere endemico, siccome confermato dalle quattro ricadute morbose in quattro stagioni consecutive, era viziato dalla omessa valutazione dei documenti decisivi ritualmente allegati al fascicolo di parte con i numeri 8 e 27, da cui risultava che esso ricorrente aveva soggiornato in (...omissis...) per otto stagioni di seguito, e non per quattro, e che la patologia malarica era stata contratta solo in due circostanze e non in quattro.

Il suddetto motivo di ricorso è inammissibile.

Come è noto, in base al canone di autosufficienza del ricorso, che costituisce una applicazione del principio di specificità, è necessario che nello stesso siano indicati con precisione tutti quegli elementi di fatto che consentano di controllare l'esistenza del denunciato vizio senza che il giudice di legittimità debba far ricorso all'esame degli atti.
Pertanto nel caso di specie parte ricorrente, nel proporre le suddette censure concernenti l'erroneità della motivazione adottata dalla Corte territoriale per i profili sopra indicati, avrebbe dovuto riportare nel ricorso il contenuto dei predetti documenti, onde consentire a questa Corte di valutare l'esistenza del vizio denunciato senza dover procedere ad un (non dovuto) esame dei fascicoli - d'ufficio o di parte - che a tali atti facciano riferimento.
Ed invero il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi della erronea o omessa valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere - impostogli dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 - di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto.
Il primo onere è adempiuto con la allegazione al ricorso per cassazione del documento in questione, ovvero con la esatta indicazione nel ricorso in quale parte del fascicolo di esso ricorrente si trovi il documento richiamato; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo nel ricorso il contenuto del documento, o quanto meno degli specifici capi del documento cui si riferiscono le censure proposte. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.
Sul punto ha evidenziato questa Corte che "è evidente che là dove la legge prescrive che il documento sia indicato specificamente, l'onere di specificazione non concerne solo il c.d. contenente, cioè il documento o l'atto processuale come entità materiali, ma anche il ed. contenuto, cioè quanto il documento o l'atto processuale racchiudono in sè e fornisce fondamento al motivo di ricorso. Sotto questo secondo profilo l'onere di indicazione si può adempiere trascrivendo la parte del documento su cui si fonda il motivo o almeno riproducendola indirettamente in modo da consentire alla Corte di cassazione di esaminare il documento o l'atto processuale proprio in quella parte su cui il ricorrente ha fondato il motivo, sì da scongiurarsi un inammissibile soggettivismo della Corte nella individuazione di quella parte del documento o dell'atto su cui il ricorrente ha inteso fondare il motivo" (Cass. sez. 3, 4.9.2008 n. 22303).

Col quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta omessa motivazione su più fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).
In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto lo svolgimento da parte di esso ricorrente di attività imprenditoriale nel (...omissis...) nei giorni in cui risultava ricoverato alla stregua della documentazione prodotta dall'istituto datoriale, avendo omesso di valutare gli ulteriori documenti prodotti da esso ricorrente (concernenti attività imprenditoriali asseritamente svolte dallo stesso in (...omissis...) allorchè egli si trovava certamente in Italia) da cui emergeva per contro che l'attività in questione era stata in realtà posta in essere dal proprio figlio.

Il motivo non è fondato.

Sul punto osserva innanzi tutto il Collegio che il vizio di omessa motivazione deve riguardare, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un fatto controverso e "decisivo" per il giudizio. E sul punto questa Corte ha evidenziato che, ove il convincimento del giudice di merito si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti e dei diversi elementi di fatto e di diritto sottoposti all'esame del decidente, considerati nel loro complesso, il ricorso per cassazione deve evidenziare l'inadeguatezza, l'incongruenza e l'illogicità della motivazione, alla stregua di tutti gli elementi complessivamente utilizzati dal giudice, evidenziando la decisività, nel contesto della motivazione svolta, degli elementi non valutati, sotto il profilo della incidenza causale del vizio di motivazione sulla decisione adottata, non potendo solo limitarsi ad inficiare uno degli elementi della complessiva valutazione (Cass., 7.4.2005 n. 7259).
Alla stregua di quanto sopra appare evidente che la circostanza dello svolgimento (o meno) di attività lavorativa imprenditoriale nel (...omissis...) da parte del ricorrente nei periodi in cui risultava versare in condizioni di malattia, assume in realtà un valore assolutamente non decisivo in relazione al contesto motivazionale adottato nell'impugnata sentenza, laddove la Corte di merito ha in buona sostanza evidenziato l'inadempimento contrattuale posto in essere dal dipendente per essersi volontariamente e reiterata mente esposto al rischio di contrarre malattia nel periodo di ferie, compromettendo la legittima aspettativa del datore di lavoro alla regolare ripresa dell'attività lavorativa al termine del periodo feriale.

Con il sesto motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).
In particolare osserva il ricorrente che la Corte territoriale, avendo rilevato che "i numerosi e documentati contrasti tra le circostanze dedotte dall'appellante, e quelle risultanti dall'istruttoria, non consentono certo di ritenere che il dipendente si sia comportato correttamente nei confronti del datore di lavoro", aveva in buona sostanza erroneamente utilizzato, ai fini della verifica della esistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la infondatezza della attività difensiva (in sede extra giudiziale o giudiziale) del lavoratore, sia perchè questa rappresenta un posterius rispetto ai fatti che il datore ha addotto per giustificare il proprio recesso, sia perchè l'attività difensiva (peraltro opera dell'avvocato officiato) è per definizione libera.

Il motivo è infondato.

Ed invero, contrariamente all'assunto del ricorrente, la Corte di merito ha basato la propria decisione non sulla infondatezza della attività difensiva, ma sulla volontaria realizzazione da parte del ricorrente di una condotta imprudente atta a determinare la reiterazione degli stati patologici.
Neanche sotto questo profilo il ricorso può trovare accoglimento.

Il ricorso proposto dal lavoratore va pertanto rigettato.

Per quel che riguarda il ricorso incidentale condizionato proposto dalla Banca CARIPE s.p.a., articolato in due motivi concernenti la omessa motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio, nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 2110 e 2119 c.c., sotto profili diversi da quelli evidenziati dal ricorrente principale, rileva la Corte che il detto ricorso è inammissibile in quanto notificato a controparte oltre il termine di venti giorni dalla scadenza del termine previsto per il deposito del ricorso principale (e segnatamente in data 14.5.2007, a fronte della notifica del ricorso principale in data 2.4.2007).
Nè alcuna incidenza assume la circostanza che il termine veniva a scadere nella giornata del sabato, non potendo trovare applicazione la proroga prevista dall'art. 155 c.p.c., comma 5 (aggiunto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 283, art. 2, comma 1, lett. f). Ed infatti lo stesso art. 2, comma 4, di tale legge prevede l'applicabilità dell'art. 155 c.p.c., commi 5 e 6 ai procedimenti instaurati successivamente al 1 marzo 2006, secondo una precisa scelta del legislatore, nella modulazione delle modifiche del processo civile, per la quale questa Corte ha già reputato insussistente ogni dubbio di illegittimità costituzionale (cfr. Cass. sez. 3^, 3.7.2009 n. 15636, ord.); e, nella specie, il procedimento è stato instaurato in epoca precedente a tale data.
Vero è che il legislatore è nuovamente intervenuto nella materia in esame, disponendo, con la L. 18 giugno 2009, n. 56, art. 58, comma 3, che l'art. 155 c.p.c., commi 5 e 6 si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data del 1 marzo 2006; ma tale disposizione deve essere interpretata in conformità al precetto di cui all'art. 11 disp. gen., comma 1, cioè nel senso di disporre solo per l'avvenire, stante l'assenza di qualsiasi espressione che possa sottintendere una volontà di interpretazione autentica della precedente disposizione transitoria e, quindi, un automatico effetto retroattivo, conseguendone che la norma potrà trovare applicazione soltanto per il futuro, e cioè, trattandosi di norma diretta a regolare comportamenti processuali, con riferimento all'osservanza di termini, relativi a procedimenti pendenti al 1 marzo 2006, in scadenza dopo la data della entrata in vigore (4.7.2009) della predetta L. n. 69 del 2009, e non già di termini che a tale data risultino già scaduti (cfr. Cass. n. 15636 del 2009, cit.).
Il ricorso proposto dall'Istituto datoriale va pertanto dichiarato inammissibile.
Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo al rigetto del ricorso principale ed alla declaratoria di inammissibilità del ricorso incidentale, per compensare tra le parti le spese relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile l'incidentale; compensa le spese del presente giudizio di cassazione.

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